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Scopri di piùMi è capitato di occuparmi più volte del tema dei Disturbi Specifici di Apprendimento, leggi alcune cose che ho scritto in proposito
Scopri di piùPerché l’approccio sintattico alle parti del discorso? Perse le istruzioni per il montaggio della frase
Scopri di piùCi sono molte esperienze che davanti al sapere tradizionale lo studente debole si tira indietro perché lo riconosce come non alla sua portata; invece, sa che cosa fare davanti a una domanda semplice come “che cosa ci mettiamo nell’ovale? Quali parole metti insieme? Come rappresenteresti questa frase?”, come in una discussione tra pari. È un modo di rapportarsi fra ragazzi più che con il moloch del sapere consolidato, quindi succede che anche ragazzi che tante volte stanno indietro si mettono alla prova e molte volte ci azzeccano. È un metodo per cui si mettono in moto e tutto sommato trovano delle risposte almeno ragionevoli, in cui magari è sbagliata la premessa e quindi è sbagliato anche il risultato, però il ragionamento invece è giusto e quindi il professore può valorizzarlo e semmai correggere la premessa sbagliata. È un metodo più coinvolgente perché richiede di guardare i dati e cercare di interpretarli. Questo, tra l’altro, è abbastanza educativo di per sé: la scuola è un luogo dove provi a dire quello che vedi tu. Sicuramente come prof. bisogna un po’ sentirsela di fare scuola in questo modo perché chiaramente il nostro ‘potere’ dalla cattedra non viene più esercitato: affidarsi alla discussione fra studenti chiaramente richiede un certo dinamismo, però è anche molto divertente, perché poi ragazzi dicono delle cose meravigliose lasciati liberi di esprimersi; tante volte arrivano a certe soluzioni che hanno colpito anche me.
L’esperienza mia e di tantissimi insegnanti è che questo metodo va bene per gli studenti con DSA certificato che hanno integre le facoltà astrattive ma hanno difficoltà col sapere ‘verbale’: liberarli dalle definizioni astratte è un toccasana, e anzi le potenzialità dello studente con disturbo specifico esplodono, anche perché in un clima collaborativo si lanciano di più, osano di più, quindi cominciano anche ad acquistare autostima che per il ragazzo con disturbo è importantissimo. Mi è stato riportato il caso di una classe dove hanno fatto meglio le prove Invalsi gli studenti con disturbo applicando i criteri che avevano appreso piuttosto che quelli che stavano attaccati al sapere precedente, alle definizioni spesso imprecise della tradizione. Anche gli studenti con debolezze di altro tipo traggono vantaggio da un sistema meno cervellotico.
Sicuramente, per esempio il fatto di disegnare l’ovale intorno al gruppo nominale può essere una difficoltà, mentre facilita l’avere già l’ovale pronto come artefatto cognitivo, diciamo un pezzo di plastica su cui si possa scrivere. Altri strumenti che sono stati utilizzati sono le parentesi, più facili da tracciare graficamente rispetto all’ovale; per isolare i circostanziali si possono usare le barrette in verticale… Quindi ci sono molte possibilità di applicare il principio inventandosi i modi più adatti alle singole persone. Quello che non consiglio è il ricorso ai colori perché non sono nettamente collegati al concetto e poi perché si rischia di usare molti colori (per esempio cominciare a distinguere soggetto e oggetto col colore o nome e aggettivo) che distraggono, e non fanno vedere più la semplicità della struttura (solo gruppi nominali e verbo).
Il vantaggio di un gruppo di lavoro che venga seguito nel corso di un periodo per esempio durante un anno scolastico è che gli esperimenti vengono messi alla prova e discussi con altre persone, dove tendenzialmente ci sia anche un formatore, perché se c’è un difetto nello strumento o una difficoltà si affronta. Tante volte il problema è che uno si trova da solo e se sbaglia si trova impantanato e non riesce a uscirne. L’associazione Diesse con le Botteghe dell’insegnare fa proprio questo (v. www.diesse.org). Quindi sottolineo l’importanza quando si fanno delle sperimentazioni di evitare di essere da soli: avere un collega della propria scuola o un amico o almeno uno che magari sta in un’altra città con cui si può collegare via zoom o via meet per condividere, prendere coraggio, confrontarsi e correggere eventuali errori.
È certamente funzionale, lo studente protagonista si autopromuove: assumiamo qui una nozione un po’ olistica di orientamento in quanto una persona non si orienta solo se fa l’esperimento di tot campi del sapere e decide che un certo campo del sapere gli piace; uno si orienta se sa chi è, ma non sa chi è finché non si mette alla prova anche solo quando alza la mano, interloquisce, o davanti a un errore prova a trovare nuove strade. L’orientamento richiede un protagonismo dello studente in quello che fa, un esserci in prima persona. Questa è la cosa più difficile perché sappiamo tutti come gli studenti vivano scuola come un non-luogo, come qualcosa che non c’entra niente con la loro vita. Perciò trovare una modalità didattica in cui uno abbia piacere di fare una propria proposta e di sentire che aveva ragione, questo è orientativo nel senso olistico del termine. Naturalmente non vuol dire che farà il grammatico di professione, ma che davanti a un impegno, una sfida, una domanda eccetera ci si mette, e questo mettercisi è la chiave – mi permetto di dire – di qualunque orientamento.
Io non sono una “valenzialista” perché la grammatica valenziale non si interessa della struttura dei gruppi sintattici e delle parti del discorso. Quello che propongo è un metodo che abbraccia tutte le parti della grammatica tradizionale, compresa la gerarchia del periodo. Effettivamente per la gerarchia del periodo ci sono altri modi di rappresentazione della complessità che non quello degli ovali e del rettangolo, per esempio un particolare artificio grafico che io chiamo ‘indentatura’, che consiste nell’andare a capo a ogni proposizione e tenere la subordinata scostata dal margine se è di primo grado, ancora un po’ più spostata in là se è di secondo grado, facendo vedere così la gerarchia del periodo. Questo aiuta la comprensione anche di frasi molto complesse, che è uno dei problemi dello studente. La questione non è tanto di dire che quella proposizione è una causale e quell’altra una finale (anche), ma riconoscere la gerarchia e anche qui non per fare l’esercizio di dire che quella è di primo grado e l’altra di secondo grado, ma proprio per capire il significato; se non si rendono conto della gerarchia non vanno dietro al senso e non sanno nemmeno leggere il periodo ad alta voce, non la capiscono nella sua struttura. Sicuramente la visualizzazione come metodo si attaglia molto molto bene allo studio del periodo. Ribadisco che io non sono una ‘valenzialista’ in quanto mi sembra che gli strumenti offerti da altri settori della linguistica siano più efficaci, soprattutto siano più completi della valenziale.
L’ordine dipende dalle priorità: che cosa interessa raggiungere? finora che distinguano un aggettivo da un pronome, il soggetto dall’oggetto o una dichiarativa da una soggettiva, tanto per fare qualche esempio.
Se però si vuole proporre un curricolo mirato al raggiungimento di competenze è più importante che capiscano subito che cosa comporta la scrittura (parte 1) o come è strutturato il periodo, per poterlo “gestire” (parte 2
Un conto è una definizione che lo studente acquisisce passivamente e che deve sforzarsi di applicare ai casi concreti, diversa è l’assimilazione di criteri certi e dimostrabili che gli permettono di valutare i diversi casi (anche inattesi) con cui si può presentare un certo fenomeno.
Importante è che lo studente si appropri del ragionamento che conduce al criterio univoco e lo utilizzi, cioè sappia come ragionare su qualunque caso anche non facile: l’esempio classico sono le preposizioni improprie, perché sapendo che una preposizione regge un gruppo nominale saprà identificare quando una parola “fa” da preposizione e quando per es. da avverbio (sopra il letto, lì sopra), ricorrendo all’osservazione concreta e non a una definizione astratta.
Per esempio, per le preposizioni improprie: regge o no un gruppo nominale?
Per il soggetto: concorda o no col verbo? Per il sostantivato: è o no “capo” del gruppo nominale? Per il pronome: occupa o no come “capo” il gruppo nominale, è o no argomento del verbo? (es. gliel’ho dato), eccetera. Lo studente deve avere una chiave affidabile di accesso ai concetti, che possa verificare in pratica, e di cui possa essere convinto, che non tradiscano sul più bello. Altrimenti la grammatica resterà una materia oscura, non verificabile, astratta (Colombo-Graffi dicono addirittura “dogmatica”).
L’analisi grammaticale è comunque facilitata perché i criteri di identificazione sono “certi e dimostrabili”. La priorità nel testo tuttavia non è la classificazione delle parti, ma la competenza cioè la scrittura e la comprensione dei testi, perciò prevalgono gli esercizi di completamento, di trasformazione, il passaggio da coordinata a subordinata, le relative ecc., che mettono in movimento e fanno acquisire flessibilità, le Grammascritture ecc.
La parte 3 poi, che riguarda le parti del discorso, non è orientata alla classificazione, per esempio alla distinzione delle sottocategorie (il caso emblematico è quello del nome) ma alla comprensione del testo: capire come le parti del discorso contribuiscono al significato (i tempi e i modi del verbo, i modificatori del nome, i pronomi come coesivi, l’incidenza sul significato di avverbi e congiunzioni, e tutta l’analisi logica a partire dalle preposizioni.
Anche in letteratura ci sono priorità: sul linguaggio letterario-poetico al biennio si lavora utilizzando la narratologia o lo studio delle figure retoriche, e spesso le schede di introduzione storica. Le schede “grammatica e letteratura” fanno qualcosa di diverso, passano dall’aspetto linguistico per “entrare” nel testo, che spesso è trascurato. È importante far notare come l’autore usa la sintassi e il perché, può essere cruciale.
Per esempio Foscolo si serve delle relative di Xmo grado in “Né più mai toccherò le sacre sponde…” come un progressivo allontanamento dell’io dal suo centro vitale, sospinto dalla “marea” della vita. Per capirlo non è necessario aver fatto il neoclassicismo o sapere tutto dell’autore.
Certo, è presentata come un modificatore del nome (specie se è restrittiva), vedendone la posizione nella frase come “incluse” in un gruppo nominale complesso, prima ancora di parlare dei pronomi relativi. Con i modificatori si entra in un’altra ottica che è sia sintattica (posizione rispetto al nome) sia semantica (funzione di restrizione del significato), fondamentale per i processi di comprensione.
Del resto la relativa si usa continuamente, e come modificatore del nome è facilmente comprensibile (specialmente se ci limitiamo al pronome relativo che).
Lo scopo non è quello di classificare i verbi (come fa la grammatica valenziale che categorizza i monovalenti, i bivalenti ecc.) ma piuttosto di rendersi conto di come funziona una frase minima: non basta parlare del soggetto e del predicato, ma nella predicazione ci deve essere tutto quello che serve al verbo, se no semplicemente non è una frase.
Il gatto dorme è una frase (minima), mentre la zia abita non lo è: cioè non tutti i complementi sono “espansioni” come si insegna alla scuola primaria. Il “posto” quindi è lasciato vuoto dal verbo, che per il suo significato deve riempirlo con un gruppo nominale per creare una frase minima.
Il termine “argomento” comprende anche il soggetto, che però ha una posizione molto diversa dagli altri gruppi nominali, perché dà il numero al verbo, e non può essere considerato come un argomento al pari degli altri, anche se fa parte della struttura argomentale della frase (il verbo lo richiede quasi sempre).
Quindi parliamo di struttura argomentale per dire questa proprietà del verbo di mettere in scena un soggetto e altri “attori”, ma manteniamo l’idea che la frase è una struttura soggetto-predicazione. Per questo parlando della predicazione osserviamo i gruppi retti dal verbo, escludendo il soggetto, altrimenti il soggetto non può essere definito nelle sue reali caratteristiche.
Infatti, gli argomenti del verbo non sono sempre obbligatori: il complemento oggetto con certi verbi transitivi può essere saltato, il soggetto in italiano può essere sottinteso, il complemento d’agente di un verbo passivo può essere taciuto, e questo anche in frasi regolari.
In altri casi l’elemento manca perché siamo in presenza di un enunciato e non di una “frase grammaticale”, e viene desunto da contesto comunicativo (così avviene normalmente negli scambi comunicativi come il dialogo).
La questione dei posti vuoti (e quindi della struttura argomentale della frase) sarà importante per chiarire poi almeno due cose.
La prima: i pronomi, parole “vuote” e poco “visibili” che si comprendono vedendo che cosa richiede il verbo, per es. gliel’ho detto richiede qualcuno a cui dire (glie-) e qualcosa da dire (-l’): data la struttura argomentale della frase, i bambini anche piccoli non si spaventano davanti ai pronomi.
La seconda le dipendenti, che possono avere una principale non indipendente quando la dipendente è “completiva” cioè è un argomento del verbo (mi conferma che verrà) oppure una principale indipendente se la dipendente è circostanziale (es. poiché sono in ritardo prendo la macchina …).
Il verbo copulativo non lascia immaginare una “scena”, mentre il verbo predicativo sì anche quando è incompleto.
Se dico “abita” comunque mi posso raffigurare mentalmente l’evento, ho un’immagine mentale a cui l’associo, anche se non si capisce chi vi partecipa (chi e dove), mentre se dico “sembra” non posso nemmeno raffigurarmi mentalmente un evento.
Questo perché un verbo predicativo come abita “predica” (dice qualcosa) mentre il verbo copulativo sembra non predica, e infatti predica la parte nominale. Questo criterio aiuta moltissimo a capire la differenza fra predicazione verbale e nominale.
Come tutto quello che ho proposto di “anomalo”, il problema nasce quando gli studenti palesemente fanno fatica su un argomento e non lo capiscono.
Quello dei complementi predicativi è uno di questi: anche dopo anni di grammatica ancora non l’hanno capito. Oltretutto continuare a chiamarli “complementi predicativi” è fallace (non dà un criterio certo), perché effettivamente non esprimono una relazione logica tipo la causa o il fine ecc.
Invece, una volta capito il concetto di predicazione come “dire del soggetto”, e capito che la predicazione nominale è quando a predicare è un nome o un aggettivo, risulta chiaro che in ascolta attenta abbiamo entrambe le tipologie; ascolta è predicativo (ho un’immagine mentale dell’ascoltare), attenta dice del soggetto e torna sul soggetto (infatti concorda).
La parafrasi come altre volte è la prova del nove: mentre ascolta (v. predicativo) è attenta (parte nominale che predica). Lo stesso coi verbi elettivi appellativi ecc.: è stato eletto capoclasse significa che adesso è capoclasse. Le parafrasi dei predicativi permettono di verificare che è così, cioè io non ho inventato niente ma mi sono limitata a osservare che cosa succede in pratica.
Certo, è presentata come un modificatore del nome (specie se è restrittiva), vedendone la posizione nella frase come “incluse” in un gruppo nominale complesso, prima ancora di parlare dei pronomi relativi. Con i modificatori si entra in un’altra ottica che è sia sintattica (posizione rispetto al nome) sia semantica (funzione di restrizione del significato), fondamentale per i processi di comprensione.
Del resto la relativa si usa continuamente, e come modificatore del nome è facilmente comprensibile (specialmente se ci limitiamo al pronome relativo che).
Io non sono una “valenzialista” perché la grammatica valenziale non si interessa della struttura dei gruppi sintattici e delle parti del discorso. Quello che propongo è un metodo che abbraccia tutte le parti della grammatica tradizionale, compresa la gerarchia del periodo. Effettivamente per la gerarchia del periodo ci sono altri modi di rappresentazione della complessità che non quello degli ovali e del rettangolo, per esempio un particolare artificio grafico che io chiamo ‘indentatura’, che consiste nell’andare a capo a ogni proposizione e tenere la subordinata scostata dal margine se è di primo grado, ancora un po’ più spostata in là se è di secondo grado, facendo vedere così la gerarchia del periodo. Questo aiuta la comprensione anche di frasi molto complesse, che è uno dei problemi dello studente. La questione non è tanto di dire che quella proposizione è una causale e quell’altra una finale (anche), ma riconoscere la gerarchia e anche qui non per fare l’esercizio di dire che quella è di primo grado e l’altra di secondo grado, ma proprio per capire il significato; se non si rendono conto della gerarchia non vanno dietro al senso e non sanno nemmeno leggere il periodo ad alta voce, non la capiscono nella sua struttura. Sicuramente la visualizzazione come metodo si attaglia molto molto bene allo studio del periodo. Ribadisco che io non sono una ‘valenzialista’ in quanto mi sembra che gli strumenti offerti da altri settori della linguistica siano più efficaci, soprattutto siano più completi della valenziale.
In realtà quando arrivano alle completive e alle relative hanno già fatto i complementi circostanziali e sanno anche come trasformare i complementi in dipendenti: il legame logico è lo stesso. Poi non si presentano le relative come “improprie” creando un’altra sottocategoria (meno sottocategorie ci sono, meglio è), ma si fa presente che la relazione della relativa con l’antecedente è debole, è più sintattica che logica (del resto molte completive e relative usano un legame debole come la parola che).
Tranne che in alcuni casi il contesto suggerisce che sia implicato anche un nesso logico (la relativa con valore concessivo, per es.). In questo caso è la comprensione del testo a richiedere l’inferenza del nesso logico, ma a questo lo studente si abitua se sa parafrasare (un saper fare indispensabile): in quanti modi si può esprimere lo stesso concetto? È una competenza che serve per la scrittura.